Brendola, l’incompiuta

Novant’anni fa esatti sulla facciata della chiesa veniva issata la statua di San Michele, un arcangelo in pietra di quattro metri scolpito da Giuseppe Zanetti. Spada in mano, sguardo fisso, le ali piegate, pronto all’assalto, alla testa delle sue truppe celesti. A vederlo oggi, sembra davvero l’unico uscito vivo dalla battaglia, come gli eroi di certi film, mentre la chiesa su cui è poggiato appare spettrale, abbandonata, mutilata, abitata solo dagli arbusti che hanno messo le radici tra le pietre. L’Arcangelo sembra osservare algido la Rocca dei Vescovi, sul colle giusto di fronte, a soli 15 minuti a piedi, quel castello medievale che nella sua lunga storia è stato davvero assediato e incendiato. Si chiama così perché nel 1266 la diocesi l’aveva ceduto alla comunità locale con la promessa di ospitare il Vescovo in caso di necessità. Ora l’Arcangelo non vede che rovine ovunque posi lo sguardo.
Brendola è stesa su un ondeggiare di colline dolci. È chiamata la Porta dei Berici perché da qui si accede ai famosi colli vicentini, e tutto attorno è un mondo di boschi, vigneti, pievi antiche, ville e chiesette. Ma ciò che domina questo paese di neanche 7 mila abitanti è proprio la Chiesa di San Michele Arcangelo, sorta con la vocazione da Duomo e rimasta incompiuta. Che poi è il nome con cui tutti la conoscono: l’Incompiuta, appunto. Così si presenta questo enorme e affascinante monumento interrotto. «Qui ci fermiamo ad ogni visita guidata che organizziamo – racconta Francesco Bisognin, presidente della locale Pro Loco – È una tappa obbligata e tutti rimangono affascinati dalla bellezza misteriosa che sprigiona».
Tutto ha inizio nel 1904, quando un plebiscito chiama gli abitanti di Brendola a dire se sia il caso di costruire o meno una nuova chiesa. Da tempo la comunità è divisa, su cosa non si sa, ma è un rancore che ha messo uno contro l’altro i quattro parroci allora in funzione. Il nuovo edificio, si pensa, potrà ricomporre gli animi e cementare una nuova identità. L’esito è inequivocabile: solo in 31 si oppongono, i sì sono 321.
Ma questo è solo un prologo. Bisogna aspettare il 1926 perché nasca un comitato e altri due anni per avere sul tavolo un progetto. Il vero protagonista di questa vicenda è un parroco, don Francesco Cecchini, arrivato a Brendola dal 1912: instancabile, è lui che riesce a convincere, a smussare, a sciogliere i nodi, a incoraggiare i parrocchiani, a trovare le risorse.
L’architetto scelto è un ventottenne, Fausto Franco: studi alla Real Scuola di Architettura di Roma, competenze di archeologia e ingegneria, ha già fama di tecnico brillante. Il suo progetto convince tutti, prima di tutto il vescovo che a quel punto concede il nulla osta. Quello che propone Fausto Franco è un edificio alto 28,5 metri, una superficie di 1124 metri quadri a croce latina e tre navate scandite da colonne, quella centrale larga il doppio di quelle laterali; il sapore è romanico, la facciata ha tre grandi aperture finestrate, lunghe e strette. A fianco, un campanile alto il doppio avrebbe svettato sulle campagne circostanti.
«Colpisce l’eclettismo con cui si approccia e l’uso sperimentale di tecniche e materiali – racconta Emanuela Sorbo, docente di restauro architettonico allo IUAV di Venezia, che su Brendola ha lavorato molto negli ultimi anni – Usa ad esempio soluzioni come il laterizio armato, crea archi sottili facendosi guidare dai saperi locali delle maestranze».
I lavori, tuttavia, procedono con lentezza: nel 1933 è terminata la facciata e appare l’Arcangelo sulla sommità. Ma sono anni complicati: l’Italia è isolata e in difficoltà, nel 1941 si lavora sulla copertura, poi la guerra ferma tutto. Nel frattempo, don Cecchini si ammala e il gregge si disorienta. Nel 1949, con la sua morte si ferma anche il cantiere. Da allora la chiesa dell’Arcangelo guerriero rimane così, incompiuta e mai consacrata. Una rovina, un testimone muto. Oggi, all’interno non si può entrare, troppo pericoloso. Ma da fuori la scena ha qualcosa di irreale, circondata dalla campagna, di fronte il piazzale e la villa municipale. Eppure, è una falena per i fotografi o la perfetta scenografia per un concerto. Cosa farne è una questione che si dibatte da sempre. Di idee ne sono uscite, tutte con l’obiettivo di terminarla in qualche modo.
E se invece rimanesse così, con la possibilità di viverla così com’è? È quello che hanno pensato allo IUAV, nel laboratorio condotto proprio da Emanuela Sorbo, che ha messo a punto un progetto, assieme ai tecnici del Comune e della Sovrintendenza. «Conservare l’incompiutezza», spiega la docente. L’idea-chiave è proprio quella di «considerarla una rovina paesaggistica». Significa metterla in sicurezza e realizzare una conservazione dolce, un certosino «lavoro su colori, pavimentazione, archi da reintegrare e aprirla finalmente a tutti, perché possa diventare davvero un luogo vissuto proprio per la sua incompiutezza».
Tutto lascia pensare che il progetto andrà in porto. Allora l’Arcangelo potrà rasserenare il suo sguardo su Brendola.

Extra / RCS

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