Cuba libre, ma per i giornalisti no

Quando Alina López Hernández ha ricevuto la prima telefonata, non ha avuto dubbi. Ha risposto semplicemente «no». La voce dall’altra parte della cornetta è rimasta per un momento sconcertata. La Seguridad del Estado, la Stasi cubana, non è abituata a risposte simili. Solo una chiacchierata, le hanno detto, nella sede dell’Associazione artigiani artisti. «E’ uno di quei luoghi che accettano di ospitare gli interrogatori illegali, ma proprio perché sono illegali la mia risposta è stata netta». Alina López Hernández, 57 anni, ha insegnato a lungo Storia ed economia all’università, lavora per Ediciones Matanzas e soprattutto coordina La Joven Cuba (LJC), una rivista web molto rispettata nell’isola.
La Seguridad ha insistito. Alla terza citazione, Alina si è presentata in Procura con una diffida. Anche la magistrata ha spalancato gli occhi. Nessuno finora si era permesso a Cuba di denunciare la Stasi: «Dobbiamo rompere lo schema che ci vede prede del loro gioco e finiamo così per vittimizzarci», ci dice la e saggista nella sua casa a Matanzas.
Sono passati nove anni da quando Yoani Sánchez lanciava il suo 14ymedio, «il primo giornale a raccontare Cuba dall’interno», come dichiarava, attirandosi da subito l’interesse del mondo e anche l’odio delle autorità. Da allora continua ogni giorno a sfornare cronache puntuali sull’isola. Oggi Yoani Sánchez non è più sola, anche se più riservata. Quello che ha preso forma nel web è un ecosistema informativo molto articolato. Ci sono media di ogni tipo e di ogni orientamento politico. Quelli della diaspora, vecchia e nuova; e quelli nati dentro l’isola: sono proprio questi ultimi che spesso fanno incetta di premi prestigiosi e vantano tra i migliori giornalisti latinoamericani. Eppure, chi siano e di come riescano a lavorare, si sa ben poco.
Ismario Rodríguez ha 30 anni, è un brillante cronista audiovisivo. Seduti in un locale della capitale, ci racconta di Periodismo de Barrio, fondato da Elaine Díaz Rodríguez, quando era docente all’Università dell’Avana, grazie ai fondi della sua borsa di studio ad Harvard. L’esodio risale a sette anni fa con la cronaca di un’alluvione che aveva travolto un barrio povero e vulnerabile della capitale. Le micro-storie di quartiere via via sono diventate un racconto corale del Paese. «Un giornalismo di comunità», lo definisce Nere Rivera Velasco, che lavora da un anno nello stesso giornale. Lei, ad esempio, ha firmato un’inchiesta su come sia difficile accedere all’aborto negli ospedali di Santiago, nell’oriente del paese, per le intimidazioni dei fondamentalisti evangelici con la complicità dello Stato.
«Usiamo e incrociamo dati aperti quando ci sono o ci appoggiamo a università e Ong. E poi c’è il lavoro sul campo, presentandoci sempre con il nostro nome e la testata». E qui spesso piovono guai. Nere li ha finora schivati, ma Ismario ne sa qualcosa: «Mi hanno fermato e minacciato non so quante volte. Dopo le proteste dell’11 luglio 2021, mi hanno interrogato per mesi. A me hanno lasciato uno stato d’ansia insopportabile: sono andato in terapia e ho appreso un po’ di strategie per tranquillizzarmi». Chiunque faccia giornalismo indipendente a Cuba è passato per situazioni simili.
El Toque, nato nel 2014grazie a una Ong olandese, la RNW Media, è diventato un punto di riferimento nel campo dei diritti e di come difenderli persino nell’ingorgo repressivo o nella trama burocratica cubana. «Questo spiega l’accanimento della Seguridad con i nostri giovani collaboratori, interrogati e minacciati, e molti hanno finito per rinunciare», ci racconta la vice-direttrice Ana Lidia Garcia.Il fatto è che la legge vieta qualsiasi pubblicazione non riconosciuta e finanziata dallo Stato. Per questo tutte le riviste indipendenti sono considerate fuorilegge. Per sopravvivere devono trovare fondi che non provengano dall’isola e per questo sono tacciate da mercenari. L’unica possibilità è creare una Ong o una associazione all’estero, con cui raccogliere donazioni, finanziamenti e crowdfunding.
Periodismo de Barrio, ad esempio, ha trovato il supporto dell’Istituto svedese per i diritti umani, della Seattle University o di Open Society. El Toque nel 2017 ha aperto una fondazione in Polonia, si fa finanziare singoli progetti, «e nel frattempo abbiamo avviato un’agenzia per vendere contenuti, una scommessa per diventare sempre più autonomi con le risorse», ci spiega Ana Lidia Garcia. El Estornudo, magnifico esempio di giornalismo narrativo, ha base a Città del Messico e ha ottenuto il sostegno della Open Society e della Ned, il fondo bipartisan Usa. La Joven Cuba invece è nata dentro l’Università nel 2010, quando si sono permessi i primi blog di studenti e professori e oggi la rivista macina analisi come un think tank, grazie a una rete di ricercatori cubani dentro e fuori l’isola: «L’ambasciata della Norvegia ci ha finanziato un’inchiesta durata un anno sulla disuguaglianza sociale a Cuba, che abbiamo pubblicato a stralci», spiega Alina López Hernández.
Per il governo sono tutti al soldo di Washington. Assediati, aggrediti, tenuti illegalmente in posti sconosciuti, molti di loro sono fuggiti via. A Ismario Rodriguez, che vorrebbe avere una borsa di studio in Europa, negano il passaporto. Abraham Jiménez Enoa, che ha lavorato a El Estornudo e collabora con The Washington Post, non ha potuto lasciare l’isola per più di cinque anni e poi sotto la minaccia di carcere duro, è fuggito a Barcellona. A Carlos Manuel Álvarez, scrittore straordinario, direttore de El Estornudo, hanno invece imposto il divieto di entrare nel paese, dopo aver vissuto e raccontato lo sciopero della fame a San Isidro, una delle forme di disobbedienza più plateali degli ultimi anni.
A fare il lavoro sporco è anche la tivù di stato. Uno dei volti più celebri è Humberto López, premiato nel 2021 con un posto nel Comitato Centrale del Partito Comunista. È lui che, all’ora di punta, ha usato il Noticiero Estelar per screditare e umiliare i giornalisti indipendenti. Per farlo utilizza i filmati degli interrogatori che gli gira la Seguridad, facendoli passare per sue interviste e li monta in modo da farli sembrare pericolosi sovversivi.
Eppure, è un’onda che sembra impossibile fermare: durante le proteste dell’11 luglio 2021, i video registrati da migliaia di cubani, nei cortei o dalle finestre di casa, hanno documentato tutto, compresi i misfatti della polizia e i militanti di partito con i bastoni in mano. Una sorta di citizen journalism che i nuovi media sanno usare benissimo.
Altre volte interviene l’impresa statale Etecsa, per bloccare telefoni e internet. «Non abbiamo capito ancora la logica con cui oscurano alcuni siti e non altri – racconta Ismario Rodríguez – Quando bloccano l’accesso, utilizziamo il VPN, i dati vengono dirottati su vari server in modo che il censore non capisca da dove arrivano, così si possono leggere con alcune applicazioni come Outline, Psiphone o 1.1.1.1. E comunque usiamo molto telegram, whatsapp, youtube».
Questo giornalismo illegale è un esercizio di democrazia che sta modellando una qualche forma di società civile a Cuba. Il regime lo sa e lo teme. Non può nemmeno più dire che siano tutti di destra. Quando chiediamo a Alina López Hernández se si sente di sinistra, non ha dubbi: «Sì». E si considera marxista? «Proprio il marxismo, che uso come metodo di analisi, mi dimostra che questo sistema è insostenibile».

il Venerdì / la Repubblica

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